Di Alessandra Guarini – Avvocato in Biella, difensore di parte civile nel processo “Eternit bis”
In attesa del verdetto, previsto per oggi, della Corte d’Assise di Novara a conclusione del processo di primo grado nella nota vicenda “Eternit bis”, si possono fare le prime riflessioni all’esito dell’intenso dibattito udito questa mattina in aula sulla scelta della Procura della Repubblica di contestare all’unico imputato, il magnate svizzero Schmidheiny Stephan Ernst, il reato di omicidio in forma volontaria e non colposa.
L’imputato, quale responsabile della gestione delle società Eternit S.p.a. e Industria Eternit Casale Monferrato S.p.a., è accusato, di aver cagionato la morte di oltre 300 persone, agendo con coscienza e volontà, tra lavoratori operanti presso gli stabilimenti della Eternit siti in Casale Monferrato, familiari degli stessi e cittadini residenti nelle zone limitrofe allo stabilimento.
La questione giuridica che connota e rende unico nella storia giudiziaria italiana questo processo è la seguente: la conoscenza degli effetti dell’amianto sulla salute è sufficiente a rendere dolosa la condotta?
L’attuale assetto della giurisprudenza sul punto fa perno sul noto pronunciamento a Sezioni Unite (2014) nell’altrettanto nota vicenda sul caso Thyssenkrupp, nel quale il giudicante per stabilire se qualificare come colposa o dolosa una condotta hafatto ricorso alla c.d. formula di Frank (dal nome dell’autore tedesco al quale se ne riconosce la paternità).
In altri termini il criterio dirimente al fine di valutare se la condotta sia sorretta da dolo eventuale o colpa cosciente guarda acosa avrebbe fatto il soggetto se avesse avuto la certezza della verificazione dell’evento. Se si ritiene che il soggetto anche con questa certezza avrebbe agito allo stesso modo, perché l’evento rappresenta il prezzo che sarebbe stato disposto a pagare per raggiungere il suo scopo, allora si ritiene che vi sia dolo eventuale, viceversa colpa cosciente.
Il vero criterio distintivo quindi guarda all’elemento volitivo e non più alla sola rappresentazione dell’evento, in questo caso la morte di chi è stato a contatto con la sostanza letifera.
Ricercare l’atteggiamento soggettivo facendo riscorso alla c.d. formula di Frank può, in concreto, risultare complesso in quanto si tratta di un’indagine psicologica, sul foro interno, e ciò nonostante gli indici sintomatici individuati a tal fine dalle Sezioni Unite.
La percezione da parte delle vittime è quella secondo cui confinare la condotta nel perimetro della colpa significhi alleggerire la posizione dell’imputato, sollevandolo da una responsabilità ben più grave che deriva dalla conoscenza delle conseguenze non solo prevedibili, ma previste e quindi accettate, per tale ragione da ritenersi intenzionali. Per contro, i cultori del garantismo giuridico osservano come non si possano porre sulle stesso piano le condotte di chi impugna un’arma, spara e uccide e di chi conduce un’attività lecita ancorché rischiosa e dannosa.
Secondo la Procura, che ha chiesto la condanna all’ergastolo, l’imputato era a conoscenza con certezza sin dal 1976 che l’amianto uccide, a nulla rilevando il fatto che non potesse sapere quando e chi sarebbe morto. Ciononostante l’imputato, infatti, ha scelto di proseguire la produzione per un bieco fine di profitto, tacendo i rischi sulla salute ai lavoratori e alla popolazione.
Avrebbe inoltre posto in essere un vero e proprio depistaggio: disinformando i dipendenti rispetto al pericolo connesso alle fibre di amianto al fine di scongiurare proteste, agitazioni e infine l’abbandono del lavoro da parte dei lavoratori; piegando al proprio volere prima la scienza e poi le istituzioni anche internazionali con una pervasiva azione di lobbing, finalizzata a tutelare il fiorente affare dell’amianto.
Proprio questa acclarata “spietata, lucida e pianificata strategia” di impresa paleserebbe la sussistenza di un profilo volontaristico molto intenso, non più nei termini di una mera accettazione del rischio, ma di un“prezzo” che sarebbe stato disposto a pagare e con ciò giustificandosi la richiesta di condanna alla pena massima per omicidio volontario di lavoratori e cittadini inconsapevoli.
Ciò che rileva, secondo la tesi sostenuta dall’accusa, non è tanto la quantità dei decessi quanto piuttosto la qualità e le caratteristiche dell’azione. Secondo la difesa, per contro, risulterebbe del tutto“aberrante” contestare l’omicidio volontario in assenza di unacerta consapevolezza degli effetti dell’amianto, peraltro vietato in Italia solo dal 1992 e quindi a notevole distanza dai fatti e dalla chiusura dell’impianto avvenuta nel 1986. Il processo non avrebbe infine fornito prova che gli articoli scientifici dell’epoca sulla pericolosità dell’amianto fossero noti all’imputato.
In attesa di apprendere l’esito di questa difficile vicenda processuale e di conoscere la valutazione ed il ragionamento sottostante l’inquadramento giuridico dei fatti condiviso dal giudicante, in adesione o meno al citato pronunciamento, si è ritenuto quindi opportuno richiamare l’approdo della giurisprudenza più recente che – come anticipato – individua il criterio discretivo nell’aspetto volitivo, da intendersi – oggi – quale “prezzo” che l’agente sarebbe stato disposto a pagare al fine di conseguire il suo scopo.