Se da un lato lo scenario mostrato dall’emergenza Covid-19 è stato e continua ad essere quello di una crisi economica senza precedenti, con milioni di lavoratori che hanno perso il posto di lavoro per la forzosa chiusura di tutte le attività di commercio e produzione di beni non essenziali, il rovescio della medaglia disvela altrettanti lavoratori che, invece, non hanno mai smesso di prestare le proprie mansioni al servizio di aziende, società ovvero di singoli imprenditori e datori di lavoro, occupandosi, in alcuni casi, anche del commercio di beni non ritenuti essenziali.
La presente trattazione, pertanto, intende occuparsi della posizione del lavoratore dipendente, ovvero del lavoratore ad esso normativamente assimilato, che abbia contratto il Covid-19 in occasione di lavoro, sottolineando la particolare situazione che attualmente colpisce il settore logistica e consegne relativo soprattutto alle c.d. “aziende di commercio elettronico”.
Invero, un aspetto peculiare che ha accompagnato sin dall’inizio, e continua tutt’oggi ad accompagnare, questo tragico periodo è certamente l’incremento smisurato e spasmodico degli acquisti online – a partire dai beni c.d. essenziali siano ad arrivare a qualsivoglia tipologia di oggettistica da svago, arredo, etc..
Questo esponenziale aumento della domanda non è stato certamente scevro di conseguenze durante l’emergenza covid19 ed ha avuto risvolti tangibili anche in tema di organizzazione del lavoro nelle strutture aziendali preposte al commercio online, le quali hanno dovuto proporzionalmente aumentare l’offerta a discapito, molto spesso, della salute e della sicurezza dei propri dipendenti.
Per fare un esempio noto, basti pensare alle innumerevoli proteste mosse sin dall’inizio della pandemia dai lavoratori dipendenti di alcune sedi – italiane e non solo – del colosso multinazionale “AMAZON” i quali, anche durante il “lockdown”, hanno continuato a svolgere a pieno ritmo le mansioni relative al settore della logistica e della consegna dei beni offerti sulla piattaforma digitale.
Orbene, alla luce del quadro presentato, in primis, va rilevato che il contagio da Covid-19 avvenuto in occasione di lavoro, in quanto assimilato ad una “causa violenta” è ormai pacificamente qualificato quale infortunio con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di tutela applicabile (più precisamente il contagio è definito quale malattia-infortunio nel senso che, fermo restando l’inquadramento tra gli infortuni sul lavoro, si applicano i medesimi criteri probatori in vigore per l’accertamento dell’esposizione a rischio e del nesso di causalità vigenti per le malattie professionali).
Lo stesso art. 42, comma 2, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, dispone che «Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato”. Ulteriore conferma al riguardo è data, infine, dalla circolare Inail n. 13 del 3/4/2020 che precisa: “…secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, l’Inail tutela tali affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro…”.
Accertata la natura di infortunio del contagio avvenuto in occasione di lavoro, una breve considerazione va fatta in merito alla locuzione “occasione di lavoro” richiamata anche dall’art. 42 co. 2 cit.: all’uopo occorre rilevare che secondo la Corte di Cassazione rientrano nelle locuzione tutti i fatti, anche straordinari ed imprevedibili, inerenti all’ambiente, alle macchine, alle persone, e persino al comportamento colposo dello stesso lavoratore, purché attinenti alle condizioni di svolgimento della prestazione ivi compresi gli spostamenti spaziali funzionali allo svolgimento della prestazione, con l’unico limite del rischio elettivo, inteso come tutto ciò che sia estraneo e non riguardante l’attività lavorativa, e dovuto ad una scelta arbitrale del lavoratore (cfr. Cass. Civ. cass 17917/2017).
Pertanto, con specifico riferimento alla categoria dei corrieri “Amazon”, fattorini postali e corrieri per altri vendor come “Ebay” etc.., ovvero dei c.d. “riders”, l’occasione di lavoro appare ricomprendere una categoria molto ampia di situazioni connesse proprio alla tipicità ed alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, ossia gli spostamenti ed il diretto e frequente contatto con i destinatari dei prodotti acquistati online, circostanze, queste, che influiscono grandemente anche sul rischio di contrarre il virus.
Appare evidente, infatti, che la probabilità di contrarre il Covid-19 assume connotati molto più ampi se si considera il contatto degli addetti alle consegne con soggetti potenzialmente affetti dal nuovo coronavirus, stante, invero, l’assenza di limitazioni ed obblighi per i destinatari dei prodotti acquistati online (ad es., non vi è neanche l’obbligo per l’acquirente di specificare in sede di acquisto del prodotto se abbia o meno contratto il virus, comportando, tale circostanza, un evidente aumento del rischio di contagio per l’ignaro corriere addetto alla consegna).
Sebbene il rischio di contrarre il virus relativo all’intera popolazione venga considerato quale rischio “generico”, questo diviene “aggravato” e finanche “specifico” in relazione a determinate tipologie di settori ovvero a specifiche condizioni di svolgimento dell’attività lavorativa. Tale aspetto risulta di notevole importanza con riferimento all’accertamento sull’origine professionale dell’eventuale contagio occorso al lavoratore dipendente. Invero, nelle ipotesi di rischio “aggravato” o “specifico”, opera il principio della presunzione semplice, ovverosia, si presume che il dipendente abbia contratto il virus in occasione di lavoro (un esempio di rischio specifico è quello che corrono i sanitari preposti ai reparti Covid-19 ed in generale l’intero settore sanitario ma vi rientrano anche altre tipologie di lavoratori che, sebbene non operino in tale settore, per le condizioni in cui svolgono l’attività professionale sono stati ad esso equiparate).
Con la circolare n. 13 del 03.04.2020, l’Inail ha precisato che possono certamente considerarsi mansioni a rischio “aggravato” o “specifico” tutte quelle che richiedono un costante contatto con il pubblico e/o l’utenza (per fare degli esempi, gli addetti alla cassa, i lavoratori che operano in front-office e, per quel che interessa ai fini della presente trattazione, gli addetti al settore delle consegne per conto di aziende, società e singoli datori di lavoro/imprenditori).
Accertata quindi la natura di infortunio del contagio avvenuto incidentalmente in occasione di lavoro, e la presunzione di malattia “professionale” per le tipologie di mansioni a “rischio”, vieppiù “aggravato” e7o “specifico” in cui rientrano i dipendenti di aziende che si occupano di consegne del commercio elettronico, quel che rileva ai fini della presente trattazione sono i possibili profili di responsabilità che possono delinearsi in capo all’azienda (responsabilità amministrativa da reato) ed in capo ai singoli dirigenti/imprenditori/datori di lavoro (responsabilità penale) nelle ipotesi in cui uno o più dipendenti risultino positivi al Covid-19.
Con specifico riferimento alla responsabilità del datore di lavoro, va sin da subito rilevato che il codice civile detta una norma a carattere generale, l’art. 2087 c.c., attraverso cui viene sottolineata la posizione di garanzia che incombe sullo stesso; garanzia che si sostanzia nel dovere di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori che svolgono l’attività professionale alle proprie dipendenze ovvero alle dipendenze dell’azienda. La circostanza per cui la legge riconduca in capo al datore di lavoro tale posizione di garanzia, è cristallina: vertendosi in materia di diritti costituzionalmente garantiti (diritto alla salute), ed avendo il datore di lavoro poteri decisionali, di spesa, e dunque organizzativi, è certamente ragionevole ritenere che incomba su di esso la responsabilità per eventuali carenze da un punto di vista dell’adeguatezze delle misure anti-infortunistiche adottate, nonché in ordine alla eventuali violazione delle norme cautelari dettate in tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro.
Sul punto il legislatore ha dettato una disciplina specifica e dettagliata che prende il nome di T.U. in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/2008) la cui violazione comporta, sempre, la responsabilità penale del datore di lavoro – anche se dalla violazione non sia derivato alcun infortunio sul luogo di lavoro. Per fare degli esempi, tenuto conto dei particolari aspetti che caratterizzano l’infortunio causato dal contagio da Covid-19, vengono certamente in rilievo le violazioni degli obblighi elencati dall’art. 18 del D.Lgs 81/2008, ossia, per citarne solo alcuni:
- la nomina di un medico competente per la sorveglianza sanitaria in azienda e la gestione delle emergenze;
- la programmazione delle misure di prevenzione;
- informare i lavoratori circa il pericolo esistente, le misure predisposte e i comportamenti da adottare;
- richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione;
- prevedere le condotte da attuare in caso di pericolo immediato;
- richiedere al medico competente l’osservanza degli obblighi previsti a suo carico;
- fornire i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale.
Ulteriori forme di colpa specifica del datore di lavoro sono riscontrabili, inoltre, nella violazione dell’art. 41 del D.Lgs. 81/08 con riferimento all’omessa od insufficiente vigilanza sanitaria ovvero in relazione alla violazione dell’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi (art. 17 D.Lgs 81/8) ed, in particolare, la valutazione del rischio biologico quale è stato definito quello da contagio da Covid-19 (ar. 271 D.Lgs 81(08). Ed ancora. Avendo il datore di lavoro l’ulteriore obbligo di prevenire i cd. rischi interferenziali ai sensi e per gli effetti dell’art. 26 D. Lgs. 81/08, potrebbe profilarsi una colpa specifica in capo allo stesso anche nelle ipotesi in cui non introduca misure di prevenzione volte e regolare e disciplinare l’accesso da parte di terzi ai luoghi di lavoro.
A tale disciplina generale, inoltre, vanno aggiunte tutte le disposizioni di rango secondario (circolari, linee guida, protocolli, ecc.) emanate dal Governo proprio per fronteggiare l’emergenza Covid-19 sui luoghi di lavoro che, alla stregua di quelle dettate dal D.Lgs. 81/08 sono definite, anch’esse, norme cautelari la cui violazione comporta, pertanto, la colpa specifica in capo al datore di lavoro. Non ultimo, ulteriori prescrizioni sono contenute nel “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” sottoscritto il 14 marzo 2020 ed integrato il 24 aprile 2020 dal Governo e dai sindacati.
Orbene, il mancato rispetto di tutta la normativa richiamata, integra le contravvenzioni previste e punite dal D.lgs. 81/08 che comportano per il reo la pena dell’arresto e dell’ammenda anche se non vi sia stato nessun infortunio sul lavoro (la necessità di far ricadere nell’ambito penalistico le violazioni delle richiamate norme cautelari si rende necessaria in quanto, vertendosi in materia di diritti inviolabili come quello alla salute, la prevenzione è l’unico mezzo utile a scongiurare il pericolo e conseguente verificarsi di eventuali infortuni).
Per converso, nelle ipotesi in cui uno o più dipendenti risultino contagiati dal nuovo coronavirus, laddove le predette prescrizioni siano state pedissequamente rispettate, risulterà certamente più difficile ipotizzare e soprattutto provare, con onere in questo caso a carico del lavoratore, la responsabilità del datore di lavoro, in quanto, in assenza di violazioni delle norme cautelari dettate in materia di salute e sicurezza non vi è colpa specifica e pertanto, occorre accertare nella fattispecie il nesso causale tra il contagio Covid-19 del dipendente e una qualche specifica condotta colposa / dolosa del datore di lavoro nel trattamento dell’ambiente di lavoro per i dipendenti: impresa ardua, anche se non del tutto impossibile, dimostrando una consapevolezza del rischio specifico che, pur conosciuta, è stata trascurata.
Qualora, invece, una violazione vi sia stata, agire in giudizio con esiti positivi che accertino l’esistenza di responsabilità di tipo penale e conseguentemente risarcitoria in capo al datore di lavoro, diviene abbastanza agevole proprio in virtù della posizione di garanzia datoriale. Difatti, come accennato, qualora i dipendenti dell’azienda abbiano contratto il virus in occasione di lavoro e, contestualmente, siano state violate le disposizioni cautelari richiamate, certamente ci troveremmo innanzi ad un terreno fertile per sostenere in giudizio l’ipotesi accusatoria di lesioni personali (art. 590 c.p.) e, nei casi più gravi perfino di omicidio colposo (art. 589 c.p.), non potendosi escludere, inoltre, ipotesi di reato nella più grave forma della colpa cosciente e del dolo eventuale, che si caratterizzano per la previsione dell’evento contagio e l’accettazione del rischio che il virus possa diffondersi tra i dipendenti, nonostante il danno da lesione o morte non sia voluto dal soggetto agente).
Partendo da quanto appena affermato, occorre precisare, però, che, per vedere accertata la penale responsabilità del datore di lavoro non è sufficiente la violazione della normativa posta a tutela della salute e della sicurezza ma devono necessariamente ricorre ulteriori presupposti; in primis, occorre accertare che l’evento danno (contagio) sia prevedibile ed evitabile da chi era investito dall’obbligo giuridico di impedirlo, così come previsto dal combinato disposto degli artt. 40-42 c.p. Inoltre occorre l’accertamento del nesso di causalità tra l’evento malattia/morte e la violazione della normativa cautelare. Non basta, pertanto, salvo come detto le mansioni a “rischio” che il datore abbia violato le disposizioni cautelari per ritenere che da tale violazione ne sia derivato il contagio ma occorre fornire anche la prova specifica che il dipendente abbia contratto il virus in conseguenza di quella determinata violazione.
Sul punto, come precedentemente rilevato, nelle ipotesi di rischio “aggravato” o “specifico” risulta maggiormente semplice offrire tale prova in quanto si presume che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro. Nelle altre va dimostrato ad onere della parte che assume aver subito un contagio sul posto di lavoro, e che il danno sia correlato alla malattia professionale. Più arduo, quindi, il percorso per quei lavoratori dipendenti che non assumono un rischio qualificato ma un mero rischio “semplice”; in questi casi, difatti, non opera il principio della presunzione semplice sull’origine professionale dell’infezione ma l’accertamento medico-legale seguirà la procedura ordinaria (il criterio scientifico medico-legale privilegia i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale).
Per tornare alla vicenda da cui si è partiti, nel caso di dipendenti addetti alla consegna per conto di aziende commercio elettronico, qualora non fosse possibile risalire tout court alla causa specifica del contagio, quest’ultimo si presume come avvenuto in occasione di lavoro in quanto il costante contatto con il pubblico durante la fase di lockdown e la concreta modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, aumentano grandemente il rischio, tenuto conto, anche, che non può escludersi la positività al Covid-19 dei destinatari delle consegne e la presumibile contrazione nel tragitto per le consegne. Ciò, come visto, determina un’inversione dell’onere probatorio: nello specifico il lavoratore sarà tenuto a provare esclusivamente lo stato morboso e di aver svolto mansioni che lo hanno esposto a contatto con il pubblico (circostanza necessaria e sufficiente per l’operatività della presunzione semplice), ma non dovrà dare alcuna dimostrazione di aver contratto il virus sul luogo di lavoro né che siano state violate le disposizioni cautelari in materia si sicurezza sui luoghi di lavoro. È sul datore di lavoro che incombe invece l’onere non soltanto della normale prova liberatoria ma anche della prova “negativa” di mancanza del nesso di causalità fra mansioni espletate dal dipendente e avvenuto contagio.
Alla luce delle considerazioni svolte, seppure escludere altre cause di contagio resta comunque impossibile, sarebbe compito arduo per l’azienda, stante la estrema contagiosità del nuovo coronavirus, fornire la prova di aver adottato tutti gli strumenti necessari per scongiurare il rischio di contagio nonché dimostrare di non aver violato le disposizioni cautelari ovvero che l’evento di danno era imprevedibile, in ipotesi di mansioni che espongono i lavoratori ad un prolungato e continuo contatto con agenti esterni e con il pubblico.
Per quanto, invece, alla responsabilità amministrativa da reato dell’azienda, questa si configura, ai sensi e per gli effetti del D. Lgs. 231/2001, nelle ipotesi in cui le condotte illecite dei legali rappresentanti o dei rispettivi delegati, siano state commesse in vantaggio o nell’interesse dell’ente ed in assenza della previsione di un adeguato modello di organizzazione e gestione (si noti il parallelo con il Documento di Valutazione dei Rischi. di cui al D. L.vo 81/2008). La norma legislativa (art. 25 e ss. D.Lgs. 231/2001) prende in considerazione le lesioni personali colpose e l’omicidio colposo come reati presupposti della responsabilità dell’ente, a condizione che gli stessi siano stati commessi in assenza di un adeguato modello organizzativo ed a vantaggio e nell’interesse dell’azienda nonché da soggetti che rivestivano una posizione apicale, con capacità organizzativa e di spesa per attuare le opportune prevenzioni.
Va rilevato, però, che anche l’ente può essere esente da responsabilità a condizione che riesca a dimostrare che: “A) l´organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; B) il compito di vigilare sul funzionamento e l´osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell´ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; C) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; D) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell´organismo di cui alla lettera b)….”.
In conclusione, alla luce di quanto emerso dall’indagine appena svolta, appare fondamentale l’adeguatezza dei presidi che l’azienda ha posto in essere a tutela dei propri sottoposti, ben potendosi raggiungere una presunzione di colpa datoriale sul fatto che il contagio sia avvenuto in occasione dell’attività professionale svolta nello svolgimento di particolari mansioni lavorative, superabile nel caso specifico solo a fronte di una prova “al di là di ogni ragionevole dubbio” il cui onere ricade in capo proprio al datore di lavoro.
Fondamentale quindi, in occasione di contagio da parte di addetti a posizioni lavorative cd. “esposte” al contatto con il pubblico e ambienti non controllati come quelli che hanno continuato ad operare nel settore della logistica e dell’e-commerce, sarà ricostruire con esattezza le mansioni svolte in concreto da lavoratore, e verificare se i presidi tecnico-sanitari posti in essere dal datore di lavoro erano conformi alla normativa di settore, e costantemente garantiti sia in ambiente aziendale che lungo tutti il corso di svolgimento delle prestazioni lavorative, compresa la ipotesi di contrazione del covid19 in itinere per recarsi sul luogo di lavoro o per il rientro a casa, e/o in ambito di consegna per gli addetti al recapito.
Una volta fatto accesso alla presunzione semplice dimostrando di rientrare nelle ipotesi di rischio “aggravato” o “specifico”, il lavoratore contagiato da Covid19 potrà accedere da un lato alle tutele derivanti dalla applicazione delle coperture da infortunio proprio della malattia professionale, dall’altra agire sia in sede penale che civile, per ottenere il risarcimento del danno a carico del datore di lavoro.
Dott.ssa Cecilia Tau
Condividi:
- Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per stampare (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic per inviare un link a un amico via e-mail (Si apre in una nuova finestra)