Da quando ho iniziato a indossare la toga nelle aule dei tribunali di mezza Italia mi sento ciclicamente ripetere, dopo ogni decisione palesemente ingiusta da parte di un qualche giudice, che le sentenze non si commentano, ma si rispettano; non sono per niente d’accordo su questo dogma che vincolerebbe avvocati e giuristi a non esprimere motivate perplessità ed anche aperte obiezioni sulla conclusione di un processo che non fa Giustizia. D’altronde se le sentenze fossero così indiscutibili, non esisterebbero le impugnazioni, che spesso correggono quelle dei primi giudici, ed altre volte fanno danni peggiori, come in questo caso. E su quel vizietto tutto italiano di considerare la giustizia popolare un orrore forcaiolo mi tocca per forza dire qualcosa.
Sulla sentenza d’appello Vannini chiunque si è in effetti sentito in diritto, anzi in dovere di parlare, protestare ed indignarsi sotto il segno dell’hashtag #noninmionome, soprattutto chi non è un tecnico del diritto, e c’è un buon motivo: tutti sono stati messi in condizione di giudicare perfettamente la gravità della condotta della famiglia Ciontoli, nel momento in cui hanno ascoltato le voci sulla doppia telefonata al 118. Anche l’antefatto è noto nella sua elementare dinamica, il 20enne di Cerveteri è deceduto nel 2015 dopo esser stato colpito da un proiettile esploso “accidentalmente” dal padre della sua fidanzata Martina, il sottoufficiale della Marina militare Antonio Ciontoli, mentre i due uomini si trovavano nel bagno, dopo cena, nella casa di Ladispoli.
La contestata decisione della Corte d’Appello di Roma di ridurre la condanna di Antonio Ciontoli dai 14 anni del primo grado a soli 5 anni di carcere per la morte di Marco Vannini, non a caso, ha due significative caratteristiche:
• la prima; è l’ennesima sentenza che, spostandosi in bilico tra omicidio volontario e colposo, cioè sull’intensità dell’elemento della volontà dell’imputato nel commettere un delitto, gioca tutto sulla sottilissima linea di demarcazione che divide l’ipotesi di dolo eventuale da quella di colpa cosciente.
Per capire la vera portata devastante di questa sentenza, serve capire come distinguere il confine tra le due figure.
Sgombrato il campo dalla necessità di fare l’analisi sulla volontarietà o meno di sparare con la pistola, cioè la prima fase dell’evento, e dando direttamente per buono che si sia trattato di una colpevole negligenza nel maneggio dell’arma (accertamento sul quale nondimeno permangono ampie zone d’ombra), quello che porta alle vere responsabilità nella morte di Marco Vannini è la consapevole, intenzionale e criminale decisione da parte di Ciontoli, supportato quantomeno da una parte dei suoi familiari, di sminuire la gravità del fatto, nascondere la vera natura del malore, ritardare i soccorsi, e in questo modo condannare a morte il ventenne, rimasto agonizzante in casa per ore con una ferita perforante da una spalla al fianco opposto, ed inesorabilmente deceduto durante il trasporto in ospedale.
Il principio di soggettività (nullum crimen sine culpa) impone che per l’imputazione del fatto ad un soggetto, oltre all’elemento oggettivo (aver posto in essere un’azione od omissione, da cui scaturisce un evento, collegato alla prima da un nesso causale), è necessaria l’individuazione dell’elemento psicologico.
L’art. 43 del codice penale scinde in due ipotesi irriducibili il concetto di coscienza e volontà: il dolo, che per sua natura è “secondo l’intenzione” (il soggetto mira a raggiungere un dato evento che si realizza e compie secondo la sua volontà); al contrario, la colpa viene definita “contro l’intenzione” ex art 43 co 3 c.p., ossia l’evento finale non è comunque voluto e, dunque, si scontra con la volontà interna del soggetto. Nei reati che si pongono al confine tra dolo e colpa, la difficile interpretazione della responsabilità deve far riferimento alle sfumature della sfera volitiva dell’agente (a differenza di altri ordinamenti, come quelli anglosassoni, nei quali la pena è correlata alla gravità oggettiva del fatto storico). Maggiore è la partecipazione cosciente alla realizzazione dell’evento finale, difatti, e più grave deve essere la sanzione penale (Art. 133 cod. pen.).
Applicando all’omicidio Vannini l’ipotesi di dolo eventuale, il Ciontoli, dopo l’esplosione accidentale del colpo, avrebbe avuto contezza della gravità della situazione, ma si sarebbe limitato ad accettare il rischio del verificarsi dell’evento finale (la morte) che rimane non voluto (in senso stretto, altrimenti la morte sarebbe il vero scopo dell’azione delittuosa): sia lui che gli altri familiari hanno perso minuti ed ore preziose, accettando il rischio della morte di Marco come una possibile ma non voluta conseguenza, eppure messa in conto.
Passando invece alla colpa cosciente, Ciontoli si sarebbe rappresentato la possibilità dell’evento lesivo (morte), confidando nella concreta non verificazione dello stesso; in altre parole avrebbe perfettamente capito che Marco poteva morire senza cure (si parla infatti anche di colpa con previsione dell’evento), pur restando nella intima convinzione che non sarebbe successo (quindi, comunque, non dolo neppure nella forma eventuale).
Antonio Ciontoli voleva dunque la morte di Marco Vannini?: sicuramente no, ma non per questo non si può e deve parlare di omicidio volontario.
Antonio Ciontoli sapeva di aver sparato? Certo che si, così come tutta la famiglia, definita “un branco” dalla prima sentenza, sapeva perfettamente quanto la situazione fosse grave, tanto da poter determinare anche la possibile morte, altrimenti non avrebbero chiamato per ben due volte il 118, pur continuando a mentire spudoratamente, mentre si sentono sullo sfondo le urla di Marco “ti prego basta”, lasciando ipotizzare che stessero ancora cercando di estrargli l’ogiva del proiettile dalla carne viva.
Marco Vannini si sarebbe salvato se fosse stato soccorso tempestivamente? Le perizie dicono di si.
Antonio Ciontoli aveva una qualche motivazione per accettare quel rischio? SÌ, eccome, il suo prestigioso posto di lavoro a Palazzo Chigi; persino agli infermieri del 118 si raccomandò di non dire nulla, ad uno dei medici che non capivano perché avessero atteso un tempo così prolungato prima di chiedere aiuto, scrivono i Carabinieri, Antonio Ciontoli avrebbe addirittura rivolto delle minacce: nel referto sulla ferita non doveva scrivere che si trattava di uno sparo altrimenti avrebbe smosso delle persone importanti a Palazzo Chigi.
Per valutare l’intensità di questo complessivo comportamento tra colposo o volontario serve necessariamente essere un giudice o lo può distinguere anche l’uomo comune?! Siamo noi in grado di esprimere un giudizio del genere? È legittimo gridare allo scandalo per chi non è un tecnico del diritto? La risposta è SI, chiunque è in grado di soppesare questo profilo, e non sono io ad affermarlo, ma la Legge italiana.
• La seconda caratteristica, infatti, è che la questione è stata decisa dalla Corte d’Assise formata da otto membri, cioè da due giudici togati, giudici veri, e sei giudici popolari (persone comuni). L’art. 5 del codice di procedura penale italiano prevede che sia una Corte d’Assise, in primo grado, e la Corte d’Assise d’appello, in secondo grado, a giudicare in merito ai reati più gravi, come quelli per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a ventiquattro anni, e, tra gli altri, i delitti dolosi se dal fatto è derivata la morte di una o più persone.
Il nostro codice ha tentato di avvicinare il processo italiano a quello statunitense, ma siamo purtroppo lontani anni luce dagli avvincenti dibattimenti in aula descritti nei legal thriller americani di John Grisham. Nel sistema anglosassone la giuria popolare decide, da sola e senza alcun intervento esterno, sulla fondatezza della accusa, con una decisione necessariamente unanime, e restano isolati per tutto il procedimento (da noi, solo in Camera di Consiglio a fine processo); al loro giudice togato spetta il compito di dirigere il processo, scrivere la sentenza, stabilire la misura della pena.
Nella nostra Corte d’Assise il contraddittorio tra giudici togati e giudici popolari è un confronto impari, destinato alla miserevole sottomissione dialettica di chi non può competere con la ferrea preparazione di un magistrato; il verdetto è messo ai voti, e nel caso di parità, prevale la sentenza più favorevole all’imputato. Ma ogni decisione dovrà avere una sua chiara motivazione giuridica che deve essere scritta dal giudice a latere. Il nostro Ordinamento mette i due giudici “professionisti” in ampia minoranza, intendendo con ciò volutamente privilegiare la “sensibilità” di quelli popolari, ma poi li chiude tutti nella stessa stanza, lasciando le persone comuni totalmente disarmate al momento della decisione. Come mettere un pilota di formula uno in pista con persone che non hanno nemmeno la patente di guida.
E i giudici togati, si dirà, non hanno forse la stessa sensibilità dell’uomo comune, dei giudici popolari? E questi ultimi non potrebbero comunque imporsi numericamente nelle questioni di fatto, nell’interpretazione – per restare sul tema – del grado di volontarietà nella commissione del delitti, nello stabilire se Ciontoli aveva previsto la morte come una possibilità e ha poi deciso di correre comunque il rischio per coprire l’incidente, per non mettere in pericolo il suo lavoro, o se viceversa è stato così incosciente da non credere che un colpo d’arma da fuoco che trapassa da parte a parte un ragazzo, in mancanza di cure ne provocherà la morte? Sull’indagine psicologica di questi profili, e solo come conseguenza di tale osservazione arrivare all’affermazione di responsabilità per colpa cosciente o dolo volontario, i giudici non sono forse tutti sullo stesso livello?
Guardate di nuovo il video sul momento della lettura della sentenza d’appello, e troverete la risposta nel tono con il quale il Presidente minaccia la madre di Vannini di fargli fare “una passeggiata a Perugia” (competente per oltraggio ex art. 342 ad un magistrato a Roma), per essere stato interrotto. Vedete una qualche possibilità di confronto alla pari in camera di Consiglio? c’è spazio per la sensibilità dell’uomo comune? o si scorge solo l’esercizio asettico di un principio di diritto, avulso dal contesto delle condotte, dalle persone, dalla giustizia sostanziale?
La presenza dei giudici popolari era stata prevista proprio per garantire la massima aderenza della decisione alla interpretazione dei fatti da parte dell’uomo comune, senza sofismi giuridici e necessità di una cinica e particolare preparazione, semplicemente mettendo ciascuno di noi nei panni del Ciontoli di turno: chiunque avrebbe capito che Marco Vannini era in pericolo di vita, e che ogni minuto di ritardo nel chiamare il 118, ogni tentativo di coprire la reale natura della ferita, ogni depistaggio è frutto di una scelta, un calcolo, l’accettazione intenzionale del rischio sulla pelle altrui. Una condotta che non può che inquadrarsi nel dolo eventuale. Ed omicidio volontario.
Sul riconoscimento delle attenuanti generiche, poi, si resta davvero interdetti.
E perché i giudici non hanno deciso in questa ovvia e ben visibile direzione? Mistero, almeno (forse) fino alla lettura delle motivazioni, ma già da ora è possibile affermare un’inquietante dato di fatto.
Come ho ricordato in apertura, questa non è la prima controversa decisione che sgambetta tra colpa cosciente e dolo eventuale (es. la sentenza Spaccarotelle per l’agente della Polstrada che uccise il tifoso della Lazio, la sentenza sul rogo Thyssenkrupp, la sentenza Eternit nel quale da qualche giorno abbiamo riottenuto a Napoli il rinvio a giudizio per dolo eventuale dopo la derubricazione a Torino, l’omicidio della giovane Desirèe a Roma considerato dal riesame “non volontario”, e molte altre meno note vicende su incidenti stradali, operazioni chirurgiche, disastri colposi); il pericolo sta, per un sistema giudiziario costantemente proteso al più ampio garantismo tecnico per gli indagati e gli imputati, amministrato da una magistratura che – processo dopo processo, sentenza dopo sentenza – perde cinicamente il contatto con la vita reale, nel non saper garantire una Giustizia più vera, comprensibile ed umana, almeno nelle aspettative delle vittime, dei loro familiari e dei cosiddetti “cittadini”.
Si tratta di una pretesa di giustizialismo forcaiolo e di un ritorno ad un becero giudizio populista? da avvocato di parte civile NON CREDO PROPRIO.
La Procura della Repubblica di Civitavecchia, che non è certo un manipolo di magistrati populisti e reazionari, ha contestato in primo grado ad Antonio Ciontoli il reato di omicidio con “dolo eventuale”, e il Procuratore Generale ha impugnato la precedente sentenza chiedendo la condanna a 14 di carcere anche per gli altri componenti della famiglia Ciontoli, partecipi nell’omicidio volontario. Un coraggio che non sempre distingue i Pubblici Ministeri, perché spesso anche per gli inquirenti è preferibile restare sul “sicuro”, contestare l’omicidio colposo semplice e portare a casa il risultato, meno adeguato ma ben assicurato. Non certo per mala fede, ma per il timore che a puntare troppo in alto si finisca per stringere poco e niente. Un timore a volte giustificato, alla luce di questa ennesima decisione che NON CONDIVIDO, nei tempi, nei modi e nei contenuti, e che sono convinto che non reggerà in Cassazione.
Ma la sottostima sui reati apre la porta ad un rischio ben più insidioso dell’esiguità della pena, che pure resta un metro di giudizio sul disvalore sociale che si da all’uccisione di un ragazzo di vent’anni: la possibilità di accesso ai riti alternativi per gli imputati, che portano ad automatici e significativi sconti di pena, ed alla prescrizione breve dei reati prima della condanna definitiva. Capita nei reati di disastro. L’ho visto succedere molte altre volte. Ma questo non vuol dire che non si possa gridare allo scandalo dopo aver ascoltato quelle due telefonate al 118, perché la giuria popolare siamo anche tutti noi.
E’ per questo che le sentenze sono pronunciate “in nome del popolo italiano”.
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