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AUDIO DELLA DISCUSSIONE Processo penale d’appello VIAREGGIO (Avv. Massimiliano Gabrielli)

Il disastro ferroviario di Viareggio: ragioni a supporto della collocazione della strage in un contesto di criminalità di impresa e della attribuzione giuridica alla volontà dei vertici aziendali e di Moretti.

L’idea che la richiesta di condanna più severa per la morte di 32 persone, bruciate vive mentre dormivano nelle loro abitazioni, possa esser rivolta al massimo rappresentante dell’azienda che gestiva la rete ferroviaria nazionale, ossia all’ing. Mauro Moretti, ex AD di Rfi dal 2001 e Ferrovie dello Stato dal 2006 al 2014, ha destato nutriti moti di protesta mediatica al di fuori dell’aula del processo penale, in una sorta di delegittimazione delle richieste di condanna formulate dal Pm di Lucca e dal Procuratore generale di Firenze.

Vittorio Feltri, in un recente articolo sul suo giornale, ha definito “assurda” la richiesta di condanna a 15 anni e 6 mesi (16 anni a seguito della rinunzia alla prescrizione), riferendosi alla vicenda in termini di allarme sociale e come sintomatica di una insensata ed ingiustificata pretesa di giustizialismo sommario nazional-popolare. Secondo Feltri prendersela con Moretti, che viene glorificato per le sue alte capacità manageriali e per aver eroicamente rinunciato alla prescrizione (6 mesi, sai che eroe) “sarebbe come prendersela con il capo dell’azienda tranviaria milanese se un autobus va fuori strada e fa secchi alcuni passeggeri. Mah..”.

Una prevedibile resistenza mediatica, che fa da eco ad una buona parte dell’establishment, di cui Moretti fa parte da sempre, ricevendo protezione e nomine dal mondo delle istituzioni e del potere, sin da inizio della sua carriera, iniziata nella scalata alla CGIL arrivando in 10 anni ai vertici del sindacato, passando nel 2006 a fare l’AD, su nomina dell’ex Ministro del PD Tommaso Padoa Schioppa, in Ferrovie dello Stato e, nel 2014 (cioè dopo la strage, definita da Moretti nella sua relazione al Senato “uno spiacevolissimo episodio”), venne promosso alla dirigenza di un altro gioiello dello Stato come AD di Finmeccanica, raddoppiando il suo salario (1,7 mln/anno); il 31 maggio 2010 Moretti, 11 mesi dopo la strage di Viareggio che lo vedeva indagato e poi condannato in primo grado, già Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, venne nominato pure Cavaliere del lavoro dall’allora Presidente della Repubblica “Re” Giorgio Napolitano, ignorando le intuibili e legittime proteste dei familiari delle vittime. Una onorificenza che grida vendetta e mai ritirata; quando iniziò il processo penale, l’allora premierdel Governo Enrico Letta decise di non permettere di costituirsi parte civile allo Stato, in tutte le espressioni ministeriali coinvolte e danneggiate dalla scellerata politica aziendale – come vedremo – decisa direttamente da Moretti. Un processo penale su un disastro epocale, che vedeva imputato un soggetto a nomina pubblica, accusato di omicidio plurimo, in cui lo Stato rinunciò a presentare il conto dei danni agli imputati e, sopratutto, a contribuire tramite l’avvocatura di Stato all’accertamento delle vere responsabilità di sistema.

Anche all’interno del processo di appello, oltre alle ovvie richieste dei difensori degli imputati di azzeramento/riduzione delle condanne alle pene reclusive di primo grado, vi è stata una analitica censura sulle liquidazioni delle provvisionali erogate alle parti civili in primo grado, a fronte di una liquidazione che è stata definita abnorme ed inspiegabile, in quanto superano addirittura le famigerate tabelle di Milano per la liquidazione del danno parentale.

Ma chi ha partecipato a questo processo-monster che ha già portato, in primo grado, alla condanna di Moretti e degli altri imputati (e non ne parla per difendere il potente di turno, prendendo posizione senza aver letto neppure una pagina delle decine di migliaia di atti processuali e perizie – e spingendosi sul ridicolo nell’affermare che sarebbe assurdo dare la colpa a chi, posto ai piani alti dell’azienda a Roma, non possa certo occuparsi dello stato di un qualche carro merci deragliato a Viareggio), sa bene quanto le accuse abbiano dimostrato non solo la grave ed inescusabile negligenza di tutte le aziende coinvolte nella manutenzione e gestione del famoso carro cisterna, deragliato a causa di una rottura improvvisa dell’assile, liberando tra le abitazioni di via Ponchiello il suo mortale carico di GPL, ma anche quanto nel processo sia emersa sopratutto la presenza di una deliberata, studiata e voluta politica aziendale nel settore trasporto merci pericolose, improntata al risparmio sulla sicurezza, alla massimizzazione dei profitti e, conseguentemente, alla accettazione di un livello di rischio da parte dei vertici aziendali, un rischio riversato su utenti e cittadini in generale, inconsapevoli vittime solo perché dormivano lontani dai piani alti che oggi dovrebbero salvare Moretti.

Abbiamo appreso al riguardo, ad esempio, che lo studio commissionato dall’ERA (Agenzia europea per la sicurezza ferroviaria) sull’installazione obbligatoria per i carri merci di un detettore di svio – il meccanismo che avrebbe consentito al treno di frenare automaticamente in presenza di rottura di una parte rotabile o accenno di deragliamento a carico di uno dei componenti del convoglio – era stato bocciato per il “forte impatto economico” (parliamo di circa 6mila euro a carro merci), tanto che Pm ne ha parlato in termini di “bollettino prezzi della macelleria ERA”, visto che, stando all’analisi del rapporto tra costi e benefici evidentemente costa meno prendere in locazione i carri dall’estero a 28,00 euro al giorno, in una anomala gestione della procedura di cabotaggioe pagare i risarcimenti per tre morti l’anno, ossia quello che statisticamente è il bilancio in vite umane per questa tipologia di incidenti ferroviari; ad una precedente udienza in Corte d’appello a Firenze, assistendo alla interessante discussione di un collega di parte civile che rappresenta il Sindacato dei macchinisti, abbiamo sentito ricordare dei numerosi appelli a diminuire le ore dei turni di lavoro per questa tipologia di trasporti, onde alzare il livello di attenzione degli operatori coinvolti, e delle rivendicazioni fatte dai lavoratori alla azienda per diminuire la velocità dei convogli merci pericolose, alle quali venne risposto che secondo uno studio fatto dall’azienda, diminuire la velocità del convoglio comportava anche aumentare i tempi di permanenza del carico pericoloso all’esterno, e quindi il rischio di incidenti. Peccato che lo studio fosse fatto in relazione alla diminuzione della velocità su tutto il tratto, e non, come giustamente suggerito dai macchinisti, nell’attraversamento delle stazioni e centri abitati.

E così, mentre con una mano Moretti investiva miliardi sull’alta velocità, perché come ricordano i PM faceva “vetrina”, era strategico e consentiva apparizioni brillanti”, con l’altra mano il super-manager riduceva all’osso le spese di gestione ferroviarie ed azzerava l’investimento sul trasporto merci pericolose: invece di operare con carri di proprietà, dotandoli dei dispositivi di sicurezza disponibili a costi ragionevoli sul mercato, preferiva trasportare su e giù per l’Italia il GPL, definito il “napalm in tempo di pace”, con carri cisterna assemblati in Germania su pezzi “riciclati” da carri polacchi del 1970.

Ma tra le altre centinaia di prove a carico del management di FS prodotte in atti dal Pm e dalle altre parti, la cosa che ritengo più caratterizzante, conducendo a mio avviso a comprendere la vera genesi della “strage”, che si fatica davvero a definire “incidente“, riteniamo stia nel contratto di cui abbiamo appreso dell’esistenza, nascosto tra le carte che Vittorio Feltri evidentemente non ha mai visto, migliaia di pagine che vanno lette, appunto, prima di prendere posizione; si tratta di un accordo di distribuzione tra FS Logistica del gruppo Ferrovie dello Stato, il cui AD allora era appunto Mauro Moretti, con Aversana Petroli di Casal di Principe, a condizioni a dir poco di favore[1], per il trasporto su rotaia del GPL, in base al quale l’azienda ferroviaria praticamente accettava un servizio in remissione economica, ma perché di fatto poi si spartiva il corposo contributo erogato dal MIT ex art. 38 della legge 166/2002 per chi effettua trasporto di merci pericolose su ferrovia, riconoscendo alla committente ben il 49% dei contributi stataliquindi sostanzialmente l’azienda ferroviaria chiudeva un accordo il cui costo di gestione era superiore al compenso pagato dal cliente, pur di mettere abilmente  a bilancio un ricavo virtuale, un utile che non c’è; ma ovviamente a quel punto era imperativo ridurre all’osso i costi del trasporto, e di qui la scelta di ricorrere al noleggio dei carri all’estero ad un costo competitivo (solo 28,00 euro al giorno), certificati come nuovi ma in realtà ricostruiti in Germania anche con parte di componenti rigenerati di fabbricazione polacca del 1972 (ossia la sala, quella con l’assile che si è spaccato in due facendo deragliare il convoglio, per capirci), e che guarda caso, su esplicita richiesta di Trenitalia, venne sottoposta ad ispezione solo sulla parte della cisterna e non sul materiale rotabile (che aveva milioni di km al suo attivo), contrariamente a quanto previsto dal punto 4.3 della procedura di cabotaggio. Vale la pena evidenziare, per chiudere brevemente il cerchio, che il contratto veniva siglato nell’anno 2009 da Moretti in un momento in cui il manager era certamente sotto pressione: in Trenitalia tirava aria di cambiamento ai vertici ed il mandato di Moretti alla guida di FS sembrava volgere al termine, quindi fare numeri era imperativo, ad ogni costo.

Un sistema d’impresa di Trenitalia generalmente improntato da Moretti, in quasi un decennio di gestione autarchica, su una strategia di merchandising ben precisa.

Ma soprattutto un contratto di trasporto che si inserisce in un contesto assolutamente chiaro: fare impresa e restare al vertice per Moretti voleva dire fare utili, ad ogni costo e in ogni modo, se serve anche con contratti in remissione ed azzerando i controlli, elevando a quel punto il rischio di incidenti.

Insomma abbiamo appreso in poco tempo che tutto non si risolve, non può risolversi, nella semplice equazione: il carrello si è rotto, il treno ha deragliato, il gas è esploso, 32 persone sono morte.

Perché come detto, alla base del disastro, vi è stata una condotta aziendale ben precisa, connotata da analisi economiche e scelte dei vertici aziendali a tutto vantaggio della redditività, lasciando sul tavolo i mancati controlli e le revisioni non svolte, le prassi operative tese alla massimizzazione dei profitti, e sostanzialmente la ricerca degli obiettivi aziendali accettando il rischio di incidenti, che si inquadra perfettamente nell’aumento esponenziale dei comportamenti illeciti in ambito societario degli ultimi decenni.

Ecco allora che quel contratto per la distribuzione GPL, quella scelta di effettuare un trasporto di merci pericolose senza dotare inhouse l’azienda ferroviaria di carri moderni, con sistemi antisvio, e non noleggiati da chi proponeva all’estero un prezzo al di sotto di ogni ragionevole credibilità di efficienza, e semplificando i controlli prima di immettere quelle ferrocisterne sulla rete nazionale, si inquadra perfettamente in un ambiente estremamente competitivo, cinicamente legato agli obiettivi economici e drammaticamente condizionante quale è quello delle multinazionali e dell’illecito d’impresa commesso dai cd. colletti bianchi.

La criminologia internazionale, abbandonato da tempo il principio secondo il quale “societas delinquere non potest”, ha difatti dedicato approfonditi studi[2] ai comportamenti di rilevanza penale delle persone giuridiche[3], mettendo in luce che la corporate criminality rappresentava un problema ben più serio delle altre tipologie di criminalità normalmente prese in considerazione dagli studiosi a causa di una serie di fattori caratterizzanti:

  • l’incredibile sviluppo demografico delle persone giuridiche che ha riguardato i paesi più industrializzati;
  • l’estesa potenzialità lesiva nei confronti di un ampio numero di soggetti, in “forme di aggressione ubiquitarie, spesso transnazionali e a vittimizzazione di massa”;

L’attività illegale d’impresa, in effetti, può avere, sulla vita degli individui, un impatto persino maggiore rispetto a quello derivante dalle azioni dei singoli, sia sotto il profilo del danno economico, che di quello all’integrità fisica, come nel caso, ad esempio, di disastri ecologici, di inquinamento atmosferico, di inosservanza delle norme antinfortunistiche, o anche alle frequenti frodi finanziarie o di violazione della legislazione antitrust.

In tutti questi casi, la platea dei soggetti colpiti dalle conseguenze negative dei reati d’impresa è una massa enorme di persone, che, a volte, non ha nemmeno un collegamento diretto con la persona giuridica colpevole[4], proprio come avvenuto nel disastro ferroviario di Viareggio, in cui a pagare il prezzo delle scelte deliberate in direzione del risparmio sulla sicurezza e redditività dell’impresa (e per essa, ricercando necessariamente l’elemento della volontà e ricostruendone il percorso determinativo, si approda alla decisione presa dalle persone poste ai vertici aziendali[5]), è stato un intero quartiere ed i suoi abitanti.

La dannosità di simili eventi, peraltro, è resa ancora più drammatica dall’impossibilità nei casi più gravi, di cancellare o comunque ridurre le conseguenze negative del fatto, trattandosi, nei casi di aggressione al bene della vita, della salute o dell’ambiente, di danni irreparabili, insuscettibili di un risarcimento per equivalente.

Gli innumerevoli studi sulla cd. criminalità economica o d’impresa[6], hanno evidenziato ricorrenti aspetti devianti dell’ordinamento giuridico, fino ad arrivare ad individuare all’interno delle corporation una vera e propria propensione alla “professionalità nel reato, se non addirittura, quando le regole della concorrenza e dell’utile d’impresa sono portate agli estremi e prevalgono sull’etica e sulla morale, quasi paradossalmente, i tratti tipici di una psicopatia molto simile al profilo mentale del serial killer, in molti casi ritenendo posti i manager  ai vertici delle aziende multinazionali, affetti da una grave forma di “teleopatia”(dal termine greco τέλος, telos, che significa“fine”, “scopo”, o “obiettivo”), caratterizzata da tre elementi fondamentali:

  • l’individuazione di un obiettivoche deve essere perseguito a ogni costo;
  • la razionalizzazionedel comportamento dell’organizzazione in nome di quell’obiettivo;
  • il distacco da ogni canone morale, cioè l’anestetizzazione della coscienza come conseguenza di quella razionalizzazione.

Col tempo, gli studi hanno fornito un quadro ben preciso di quali siano le dinamiche presenti all’interno delle organizzazioni complesse, caratterizzate da una stretta interazione fra fattori strutturali e percorsi di scelta individuale: l’ambiente competitivo genera pressione sulle aziende, spingendole a violare la legge in nome del massimo profitto, e tali pressioni si riverberano sugli individui che, anche a causa di altre variabili legate alla personalità, commettono effettivamente il reato.

In breve, le tre caratteristiche che sintetizzano la filosofia imprenditoriale, ovvero la ricerca di un guadagno, il potere e la massimizzazione della produzione, potrebbero indurre un qualunque soggetto non criminale a modificare la propria condotta e agire a dispetto delle regole[7].

Non solo. Lo studio del procedimento di decision-making all’interno delle organizzazioni complesse ha messo in luce come i manager tendono ad obbedire alla politica aziendale od alla gerarchia, anche quando viene loro richiesto di comportarsi in maniera non etica o comunque contraria alla legge[8].

Del resto la c.d. “molla degli affari”, che non è più – come visto – una spinta verso la criminalità d’impresa “solo” dei colletti bianchi, ma dell’intera struttura societaria[9], non può essere efficacemente contrastata dalla introduzione su base volontaria di un codice etico interno[10], in quanto la pressione esercitata sulle imprese dalla concorrenza sfrenata in un’economia globalizzata e sregolata, cancella le prospettive di medio e lungo- termine, agevolando le logiche del “corto-termismo”, della ricerca del massimo profitto e dell’esternalizzazione dei costi e delle perdite su altri soggetti[11].

In assenza di una regolamentazione legislativa che imponga, attraverso la minaccia di una sanzione, l’adozione di determinate cautele, soltanto pochissime società decidono di modificare le proprie politiche aziendali in favore di altre più rispettose, essendo dunque necessaria la individuazione ed applicazione sulle politiche aziendali degli strumenti di deterrenza dell’ordinamento – penalistici contro i vertici aziendali ed economici contro le aziende  che incidano proprio sul meccanismo di redditività dell’illecito.

Inutile allora riproporre qui il lungo, meticoloso e documentato lavoro svolto dalla Procura di Lucca per dimostrare, senza alcuna possibilità di diversa interpretazione, che un tale complesso processo decisionale, polarizzabile sui vertici aziendali ed in particolare sull’Ing. Mauro Moretti – ma non solo, è stato l’elemento che ha preparato il terreno al verificarsi del disastro, e che, anche per tali ragioni, il costo economico della strage non è suscettibile di un risarcimento tabellare, in quanto per tale via si consentirebbe l’ammissibilità di un illecito efficiente, nel quale il risparmio sulla mancata adozione dei meccanismi di prevenzione è superiore al costo degli indennizzi, e consente l’internalizzazione degli utili, a tutto vantaggio della razionalizzazione in direzione antigiuridica delle politiche aziendali di cassa. Casse aziendali nelle quali, anche dopo il risarcimento del danno alle vittime dei reati commessi dal management, resta una parte dei risparmi sulla sicurezza, pari spesso pari a decine di milioni di euro.

I danni punitivi come strumento di bilanciamento alla criminalità d’impresa

La censura sollevata da parte delle difese sulla liquidazione “ultra-tabellare” e disancorata persino dalla c.d. “personalizzazione” del risarcimento del danno in favore di alcune parti civili da parte del Tribunale di Lucca, offre lo spunto per argomentare in merito alla legittimità, ed opportunità, del riconoscimento di un aggravio delle condanne risarcitorie in una accezione non solo compensativa, ma anche sanzionatoria ed esemplare, tipica del cd. danno punitivo, l’istituto giuridico di derivazione degli ordinamenti di common law, che affianca alla “classica”e prevalente funzione compensativa, restitutoria e tabellare del risarcimento, una ulteriore funzione, ovverosia quella punitiva, deterrente ed esemplare, se si prova che il danneggiante ha agito con malice (dolo) o gross negligence (colpa grave).

La questione sui confini instabili della responsabilità civile all’interno dell’ordinamento giuridico vivente, anche in accezione sanzionatoria-deterrente delle condotte antigiuridiche, è stata oggetto frequentemente di elaborazione anche di molti Giudici, che, in occasione di eventi connotati da colpa grave del danneggiante, hanno avvertito la necessità di esercitare una valutazione autonoma e non predeterminata dal rimando alle note tabelle milanesi, forzando la cd. personalizzazione del danno oltre i limiti previsti, raddoppiando o triplicando le somme liquidate, e dando di fatto applicazione alla funzione sanzionatoria-deterrente della responsabilità civile all’interno dell’ordinamento giuridico vivente sulle condotte antigiuridiche degli enti ed imprese, spingendo la giurisprudenza di legittimità verso il necessario riconoscimento della funzione punitiva – formalmente non prevista dal ns. ordinamento giuridico di civil-law vigente.

Contro la generale convinzione secondo cui l’unica funzione del risarcimento del danno civilistico sia quella compensativa e che i danni punitivi non risulterebbero previsti dall’ordinamento interno e, anzi, a dire di molti sarebbero addirittura “vietati”, negli ultimi anni, in pochi ma buoni e ben determinati “pirati del diritto”, abbiamo condotto una vera battaglia in tutti i processi penali sui disastri ai quali abbiamo partecipato, venendo spesso accusati di vedere troppi film americani e di speculazione.

In senso opposto e sia pure in maniera sintetica, va invece rilevato come la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite con la sentenza 16601/2017, ha da ultimo sancito la sussistenza di una natura polifunzionale della responsabilità civile ed in modo specifico la non contrarietà dell’istituto dei danni punitivi al nostro ordinamento interno.

Dopo anni di dibattiti la Corte di legittimità ha effettuato una vera e propria ‘svolta’ storica, aderendo in toto alle ns. tesi, riconoscendo: accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale…, che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva)  e quella sanzionatoria-punitiva”.

Da questo punto di vista la miglior definizione dell’istituto in parola può essere certamente quella di danno esemplare, poiché la funzione più rilevante e ricercata non è appunto quella di punire, ma di fungere da esempio per i consociati, affinché se ne eviti la reiterazione, incentivando un comportamento d’impresa più virtuoso.

Dai reati contestati a tutti gli imputati, e dalle considerazioni svolte dalla Procura Generale e soprattutto dai Pubblici Ministeri in primo grado, è possibile affermare una grave responsabilità non solo nel fatto ex se – generato da un incidente “previsto” ed evitabile – ma anche e soprattutto nella politica di gestione da parte delle Compagnie coinvolte, rappresentate dai Presidenti, dagli AD e da tutta la catena di responsabili alla sicurezza ed alla circolazione su rete dei rotabili, in un’inaccettabile malpractice nella gestione della sicurezza, nella atipica e parziale procedura di cabotaggio, e soprattutto una finalità di risparmio, che stanno certamente alla base della tragedia e del gravissimo incidente occorso a Viareggio, e che in particolare, lo ricordiamo ancora una volta,  ha incenerito 32 vite umane.

In tali ipotesi la quantificazione del danno dovrà necessariamente fare riferimento, oltre che al danno subito dalla vittima, aumentato eventualmente della componente derivante dalla gravità della condotta intenzionale, anche agli illeciti profitti che la controparte ha realizzato in conseguenza dell’illecito.

Attraverso l’attribuzione alle vittime di una somma superiore rispetto ai danni che risulterebbero dai consueti criteri risarcitori, si mira  ad inserire nel sistema penale un correttivo ottimale, un meccanismo volto, cioè, ad internalizzare tutte quelle esternalità negative che ancora incombono sulla collettività, ogni qual volta i risarcimenti erogati non siano espressivi del risarcimento di tutte le componenti negative, annullando drasticamente gli illeciti benefici del danneggiante che a livello aziendale è in grado di calcolare il rapporto costo-benefici; al fine di raggiungere tale scopo occorre prendere in considerazione quell’elemento da sempre alla base della dosimetria della sanzione penale, ma ritenuto irrilevante ai fini della determinazione del quantum civilistico, ossia la gravità della condotta da parte del soggetto danneggiante, e, come evidenziato da parte della dottrina, “occorre creare un rapporto di proporzione del danno effettivamente patito dalla vittima con quello che risulterebbe dal risarcimento dei danni puramente compensativi, considerato anche lo status economico e l’elemento soggettivo dell’offensore” (P.G. Monateri, G.M.D. Arnone, N. Calcagno, nei “danni aggravati dalla condotta” e le “circostanze del caso” di cui all’art. 2056 c.c., in Danno e resp., 2015, 7, p. 122)

Superare il risarcimento tabellare, in presenza di dolo/colpa grave da parte del sistema corporate, non solo potrà certamente rendere (migliore) giustizia a tutti i danneggiati, ma senza dubbio potrà contribuire ad impedire che un’identica tragedia si ripeta, semplicemente perché le imprese sapranno che la politica del risparmio sulla prevenzione non paga ed anzi è necessariamente foriero di punizione anche economica, in misura a quel punto imprevedibile attraverso una cinica analisi costi-benefici tra costo dei morti e adozione delle necessarie norme cautelari, consentendo ad un colosso FF.II. e R.F.I.che ha operato sotto la direzione dell’Ing. Moretti in una crescita esponenziale della azienda, attuando per decenni una politica del risparmio e della massimizzazione dei ricavi,di scaricare le negatività su vittime inerti, realizzato risparmi astronomici.

Si tratta del cd. “illecito efficiente”, grazie al quale, anche a seguito della liquidazione dei risarcimenti alle vittime, una parte dei profitti, generalmente consistenti in risparmi milionari, resta nelle casse dell’azienda danneggiante.

L’evoluzione della responsabilità civile verso una funzione punitiva tende invece ad introdurre incentivi per un comportamento efficiente, ossia di indurre chi decide ai vertici del processo di decision-making imprenditoriale di adottare (od omettere di farlo) un certo comportamento, tenendo conto dei danni che i loro atti, o le loro omissioni, possano cagionare ad altri, che nel gergo degli economisti sono definiti “costi esterni”: se gli incentivi sono ottimali, vittime e danneggianti potenziali mantengono un livello di attenzione tali da bilanciare i costi d’investimento sulla prevenzione minimizzando i costi sociali dei cd. “danni attesi.

Mentre è innegabile che un’eccessiva prevedibilità dei risarcimenti porterebbe a una neutralizzazione della funzione deterrente-preventiva. Già il giurista romano Gellio raccontava che un sistema che non sanzione adeguatamente gli illeciti intenzionaliconsentiva a un ricco nobile di andare in giro per la città a schiaffeggiare chicchessia, pronto a pagare il costo irrisorio della sua condotta illecita, trasformando la sanzione (il risarcimento) del comportamento illecito nel costo di un risarcimento-tariffa.

Il meccanismo liquidatorio del danno punitivo, che opera attraverso un moltiplicatore sul danno “base”, si innesta perfettamente in tale ottica, agganciando la misura della sanzione economica (anche) alla gravità del comportamento di chi quel danno lo ha posto in essere, alla entità del vantaggio derivato dall’illecito e la dimensione economica del danneggiante.

Sta a chi giudica l’obbligo di sganciarsi dagli automatismi, dalle tabelle, dalle calcolatrici, facendo piuttosto ricorso al metro dell’equità commisurando le liquidazioni in relazione alla gravità di tutte le condotte, dirette e di contorno, adottare decisioni, ove necessario innovative, in casi in cui, come nella fattispecie in esame, la liquidazione tabellare e l’onere della prova sul dato compensativo e di tutela del singolo nei casi di mass tort, mostra tutti i suoi limiti.

Massimiliano Gabrielli – avvocato in Roma

 



NOTE

[1]FS Logistica del gruppo Ferrovie dello Stato, il cui AD allora era Mauro Moretti, per chiudere il contratto con l’azienda della famiglia Cosentino, accettava la somma di 48 euro a tonnellata di gas trasportato. Importo totale: 2.304.000 €. A quel punto noleggiò dalla Gatx Austriaun treno composto da 14 carri cisterna per percorrere 2 volte a settimana, per 48 settimane, il tratto Trecate (stabilimento Sarpom gruppo Esso) – Gricignano Teverola. di ogni viaggio 22.800€ che moltiplicato per 48 settimane e per 2 viaggi a settimana fa esattamente 2mln 188mila. A questi vanno sommate altre spese di noleggio annuo per ogni carro e si arriva ad un totale di spesa per Trenitalia di 2mln 316mila euro: ricavo-spesa = guadagno quindi: 2.304.000€ Compenso pagato a Trenitalia da Cosentino – 2.316.000€ costo di Trenitalia per il noleggio dei carrie trasporto = remissione contrattuale di Trenitalia -12.000€.

[2]Cfr. ad es. il lavoro del sociologo americano Edwin H. Sutherland cui si deve la nota espressione “white collar crimes”; così J. S. PARKER, Corporate Crime, overcriminalization, and the failure of american public morality, in AA.VV., K. GOODPASTER, Conscience and corporate culture, Oxford, p. 15 e ss.; cfr. P. H. WERHANE, R. E. FREEMAN, The Balckwell Encyclopedic Dictionary of Business Ethics, Cambridge, Massachussets, 1997, p. 627 e ss.; Cfr. E. B. DISKANT, Comparative corporate criminal liability: exploring the uniquely american doctrine through comparative criminal procedure, in The Yale Law Journal, vol. 118, 2008, p. 130 e ss.

[3]Interessantissimo l’approfondimento nella monografia “Colpa d’organizzazione e reati colposi” della dott.ssa Giulia Ceccacci, della Scuola Superiore di studi Sant’Anna.

[4]Se, infatti, in molte ipotesi ad essere colpiti sono i dipendenti, come nel caso degli infortuni, o gli azionisti e gli investitori, come nel caso dei reati latu sensueconomici, chiunque può essere vittima di un disastro ambientale o di una violazione dei sistema di sicurezza e precauzione prescritti dalla legge

[5]Cfr. G. MAGGIORE, Diritto penale, Parte generale, vol. I, Bologna, 1949, p. 357: “…L’associazione e la fondazione possono acquistare, vendere ecc., ma non delinquere, perché́ solo la persona fisica, dotata di volontà̀ e libertà effettive, può sentire l’intimidazione della legge e violarla”. Ancora, cfr. F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Del giudizio criminale, Bologna, 2005, § 41, p. 75: “soggetto attivo primario del delitto non può esser che l’uomo: perché al delitto è essenziale la genesi da una volontà̀ intelligente, la quale non è che nell’uomo”.

[6]La bibliografia è pressochè sconfinata, su quello che rappresentò per il diritto penale un avvenimento epocale assimilato addirittura a quello della scoperta di un nuovo continente: come in quel caso, infatti, si trattava di un territorio sconosciuto e non indagato dal punto di vista del penalista. A titolo esemplificativo, si vedano, ad esempio, i seguenti lavori: M. D. ERMANN, R. J LUNDMAN, Corporate and governmental deviance. Problems of organizational behavior in contemporary society, New York, 1967; H. BARNETT, Corporate capitalism, corporate crime, in Crime and delinquency, 1981, 1, p. 4 e ss.; H. C. FINNEY, H. R. LESIEUR, A contingency theory of organizational crime, in Research in the sociology of organizations, 1982, 1, p. 255 e ss.; D. R. SIMON, White-collar crime, dehumanization and inauthenticity: toward a Millsian theory of elite wrongdoing, in International review of modern sociology, 21, 1991, p. 93 e ss.; R.C. KRAMER, R. J. MACHALOWSKI, D. KAUZLARICH, The origins and development of the concept and theory od state-corporate crime, in Crime and delinquency, 2002, 48, p. 263 e ss.; D. R. SIMON, Elite deviance, Boston, 2006. Per una panoramica delle varie teorie criminologiche in italiano, v. anche P. MARTUCCI, La criminalità economica. Una guida per capire, Roma-Bari, 2006.

[7]Cfr. M. DELMAS-MARTY, Facteurs de la criminalité d’affaires, in Conseil de l’Europe, Comité européen pour les problems criminels. Comité restreint sur la criminalité des affaires, Strasbourg, 1989. Cfr. anche C. DE MAGLIE, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Milano, 2002, p. 245 e ss. Il ruolo ancipite della struttura societaria, che, da un lato, se ben organizzata, amplifica e migliora le prestazioni individuali, dall’altro, incrementa insidiosamente il tasso di pericolosità dell’attività, è messo in luce anche da V. ATTILI, L’agente-modello nell’era della complessità: tramonto, eclissi o trasfigurazione?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 1247 e ss.

[8]Cfr. H. C. KELMAN, V. L. HAMILTON, Crimes of obedience: toward a social psychology of authority and responsibility, New Haven, 1990; In particolare, ciò si è dimostrato vero soprattutto nel caso dei c.d. middle-level manager, i quali hanno la responsabilità̀ di conseguire obiettivi prefissati, senza avere, però, il potere di prendere decisioni, che restano di competenza del top management. Come spiegato anche da altri esperimenti sociologici, alcuni tristemente famosi come il famoso esperimento Milgram, l’individuo all’interno del gruppo

[9]La polarizzazione esclusiva dell’addebito di responsabilità̀ sul singolo permette alla società di volta in volta coinvolta di scaricare sull’amministratore o dipendente di turno la colpa del fatto addebitato, anche quando esso è il risultato di una deliberata politica d’impresa e non il frutto di una sfortunata catena di eventi o della libera iniziativa di un’isolata cd. “mela marcia”: la metafora è diventata famosa soprattutto dopo che la c.d. “few bad apples defence” fu utilizzata dall’allora presidente degli Stati Uniti, G. W. Bush, a proposito dello scandalo Enron. Cfr. discorso pronunciato a Wall Street in data 9 luglio 2002.

[10]In breve, il vantaggio di un siffatto meccanismo di autoregolamentazione sarebbe quello di operare ex anterispetto a forme di controllo esterno, comprese quelle dell’autorità giudiziaria, nonché́ di poter agire in maniera pervasiva all’interno della struttura aziendale, con profondità e continuità di efficacia, potendo risultare, secondo alcuni, potenzialmente più incisivo di altri dispositivi.

[11]Uno dei casi più famosi di compagnie costrette ad abbandonare le politiche socialmente responsabili in precedenza adottate è quello che ha riguardato la società Levi Strauss: dopo aver deciso di non produrre più in Cina come segno di protesta per lo scarso rispetto dei diritti umani dimostrato da quel Paese, la società ha dovuto tornare sui suoi passi qualche anno dopo. I consumatori non avevano gradito l’aumento del costo dei jeans dovuto allo spostamento della produzione: come dichiarato dal Presidente della società, l’alternativa era fra utilizzare gli operai cinesi o “risk losing out in the competitive game of the global apparel business”. L’episodio è descritto in D. VOGEL, The market for virtue: the potential and limits of corporate social responsibility, Washington, D.C., 2005, p. 154. Per fare un altro esempio, ENRON, prima dello scandalo che ha portato al fallimento, era considerata uno dei migliori cento datori di lavori negli Stati Uniti per condizioni e trattamento dei dipendenti, ed era stata insignita di numerosi premi per la salvaguardia dell’ambiente e apprezzata per le sue iniziative filantropiche.

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