Perché e come, per il crollo del ponte Morandi a Genova, non va revocata la concessione mentre si dovrebbe colpire direttamente i Benetton e tutti i dirigenti di Autostrade per l’Italia con un maxi-sequestro ai fini di confisca.
Il Governo Salvini-Di Maio, sul crollo del viadotto genovese, ha da subito affermato che “i responsabili hanno un nome e un cognome e sono Autostrade per l’Italia”, parlando di “eventuale revoca delle concessioni e per comminare multe fino a 150 milioni di euro”.
Noi siamo invece convinti che colpire solo la società concessionaria non basti: infatti, come riferito dal vicepremier Di Maio, per fruire delle autostrade paghiamo i pedaggi più alti d’Europa e la società concessionaria, che paga tasse bassissime perché è posseduta da una finanziaria Benetton con sede in Lussemburgo, non necessariamente sarebbe solvibile in caso di revoca delle concessioni. Insomma, pagare 150 milioni di multa e lasciare a carico dello Stato la messa in sicurezza di tutta la rete autostradale, sarebbe in sostanza un vero e proprio regalo per i Benetton, proprietari attraverso la loro finanziaria di Atlantia SpA, a sua volta proprietaria di Autostrade per l’Italia.
Se lo Stato decidesse davvero di riprendere in mano la concessione pubblica, saremmo infatti noi contribuenti a dover sostenere i costi di verifica e adeguamento delle infrastrutture mentre la società Autostrade per l’Italia, che resterebbe una scatola vuota posseduta da una holding con sede a Lussemburgo dietro la quale sono schermati i Benetton, finirebbe con ogni probabilità nell’ennesimo caso di un illustre fallimento di una azienda che lascia a bocca asciutta creditori, vittime e che sopratutto non pagherebbe il conto salato delle imponenti opere necessarie a verificare la situazione delle autostrade e rimediare alla mancata od inadeguata manutenzione negli ultimi anni, in un settore vitale ed ineludibile come la rete viaria nazionale.
Come avvocati che operano già da anni nel settore dei grandi disastri, riteniamo al contrario che occorra fare un passo oltre, serve il coraggio di colpire duramente quelle aziende che non investono nella sicurezza, in modo diverso e ben più esteso di quanto suggerisce il Governo (applicare multe salatissime che probabilmente non si incasseranno mai). Né può bastare la condanna penale di qualche dirigente o amministratore societario, pagato profumatamente per gestire le aziende ma anche per farsi carico di eventuali responsabilità, sopratutto per reati colposi che non portano quasi mai al carcere, visto che la Procura di Genova ha già annunciato che intende procedere per disastro colposo ed omicidio colposo plurimo, e, quantomeno al momento, non per reati dolosi.
Si deve immediatamente CONGELARE I BENI AI BENETTON, che sono gli imprenditori di fatto concessionari del servizio Autostradale, analogamente a come avviene con le imprese in odore di mafia, con misure di prevenzione che colpiscono duramente non solo le aziende, ma anche i soggetti presuntivamente coinvolti come imprenditori occulti.
Una misura quindi ancora più estesa di quanto possibile attraverso il sequestro preventivo penale ex art. 321 del codice di procedura penale e le misure per responsabilità amministrativa delle società e degli enti prevista dal D.Lgsl. 231/2001, che invece si rivolgono solo ed esclusivamente al patrimonio delle società ma non anche a quelli dei soci.
Il ragionamento è abbastanza semplice: se i Benetton, secondo lo schema societario di cui parla il Governo, sono gli imprenditori di fatto che si sono arricchiti (anche) risparmiando per decenni sugli investimenti per manutenzioni, esponendo oggi ad un grave rischio le infrastrutture autostradali e gli utenti, la misura preventiva di un congelamento immediato dei beni necessaria a garantire i costi dei risarcimenti alle vittime e della messa in sicurezza di tutte le autostrade, è del tutto giustificata e deve estendersi anche ai beni personali della famiglia Benetton e di tutti i dirigenti della società, perché in caso di revoca della concessione pubblica, il fallimento di “Autostrade per l’Italia” lascerebbe tutti a bocca asciutta e costringerebbe lo Stato (con i nostri soldi), proprio come avvenuto con Alitalia, ad intervenire per tappare i buchi, e garantire un servizio pubblico essenziale e tutelare la sicurezza dei trasporti.
Innanzitutto va ricordato che questo ennesimo disastro si inserisce nel contesto del mondo dei grandi trasporti, che vede contrapporsi aziende, spesso multinazionali, concessionarie di un servizio pubblico, e milioni di utenti che fruiscono di quel servizio attraverso ad es. navi, treni e le relative infrastrutture come ferrovie, autostrade, tratte stradali, aeree o di collegamenti strategici nel paese.
Sono soggetti molto distanti uno dall’altro: ai concessionari viene affidato un pubblico servizio (attività economica esercitata per erogare prestazioni volte a soddisfare bisogni collettivi ritenuti indispensabili in un determinato contesto sociale), e la loro remunerazione dipende strettamente dai proventi che potrà trarre dall’utilizzo del bene e del servizio, applicando una tariffa ai cittadini che diventano “clienti”.
La differenza con un imprenditore privato è dunque chiara, e sta tutta nel termine che li distingue, infatti lo Stato “concede” loro qualcosa, lasciando all’impresa la gestione e manutenzione del servizio.
Ecco allora che i costi di quel servizio e della relativa manutenzione e adeguamento a criteri di sicurezza del trasporto, non devono esser considerati solo e semplicemente un “rischio economico d’impresa”, ma fanno parte naturale del “patto” che viene stipulato, perché non può esistere un servizio pubblico (gestito dallo Stato direttamente od attraverso altri soggetti) che prescinda come priorità assoluta dalla sicurezza dei cittadini che fruiscono di quel servizio.
Al contrario, come abbiamo purtroppo constatato in molti processi penali sui grandi disastri a livello nazionale, in quel caso affrontando il tema concorrente dei danni punitivi a carico delle aziende che non investono sulla sicurezza sui luoghi di lavoro e nei grandi trasporti, anche le società concessionarie fanno troppo spesso l’analisi dei costi come farebbe un normale imprenditore privato (che calcola il costo di produzione e distribuzione del suo prodotto per determinare un prezzo che gli garantisca un utile), e considerano il rischio (che ricade sulla sicurezza degli utenti) come un danno economico, ed addirittura i risarcimenti per la morte delle vittime come un “danno atteso” che è possibile calcolare preventivamente, e mettere lo stesso a confronto con i costi di adeguamento dei mezzi, delle infrastrutture, della manutenzione e della messa in sicurezza del servizio. Con il rischio che venga valutato più conveniente economicamente pagare i danni per gli eventuali morti piuttosto che prevenire un disastro prevedibile.
Ecco quindi che, ancora una volta, all’indomani di una immane tragedia come quella del crollo del ponte Morandi di Genova, si rischia di veder sfilare imprenditori con la pancia gonfia dal novero dei responsabili civili, e paradossalmente lasciare ai cittadini il conto da pagare per la messa in sicurezza per tutelare la salute pubblica con le tasse dei cittadini.
E se è vero che durante la grande stagione delle svendite in blocco ed a prezzi stracciati dallo Stato, la famiglia Benetton ha reinvestito i profitti fatti con l’abbigliamento, oggi si può senz’altro dire che sono i signori delle concessioni autostradali in Europa, con 14mila chilometri di strade a pedaggio, che solo nel 2016 hanno fruttato alla holding Atlantia 4 miliardi, per non parlare del fatto che, ogni anno, a gennaio arrivano puntualmente i rincari dei pedaggi, in teoria giustificati proprio dagli investimenti dei concessionari sulla rete autostradale.
In poche parole la revoca della concessione autostradale, dopo aver incassato per anni miliardi di euro in pedaggi senza fare adeguati investimenti per la manutenzione e l’ammodernamento delle infrastrutture autostradali, a fronte del pagamento della multa di 150 milioni paventata dal governo (a tutto voler concedere che riescano ad incassarla..) sarebbe il miglior affare di sempre per i Benetton, lasciando il ben più consistente onere di messa in sicurezza dei ponti e viadotti sulle spalle dello Stato (e sulle tasche dei contribuenti), senza contare la previsione di pesantissimi penali a favore della concessionaria in caso di recesso dal contratto.
Crediamo quindi che, parlando di concessionarie di un servizio pubblico, minacciare la revoca delle concessioni e multe milionarie non sia affatto la risposta al problema, ma anzi potrebbe essere il modo per Autostrade per l’Italia ed il gruppo Benetton per smarcarsi facilmente dagli imponenti costi prevedibili all’indomani della tragedia di Genova onde garantire un servizio pubblico efficiente e sicuro. Se il concessionario ha guadagnato miliardi di euro e non ha adeguatamente investito per manutenzione sulle infrastrutture, la società e tutti i soggetti ad essa collegati vanno trattati con misure cautelari analoghe a quelle usate per le imprese in odore di mafia, applicando un immediato blocco dei beni, per garantire l’esecuzione delle opere ovvero garantire il costo dei lavori eseguiti in danno direttamente dallo Stato attraverso un maxi-sequestro ai fini di confisca.
E in tale modo, dopo il tempo delle vacche grasse, costringere questi signori a garantire un servizio efficiente e sicuro, e senza aumenti di tariffe per l’emergenza.
Per non parlare poi della vera e propria “bufala” relativa ai costi proibitivi di manutenzione o sulla durata di vita massima di 50 anni per un ponte come quello appena crollato a Genova, progettato dall’ingegnere Riccardo Morandi, inaugurato nel 1967 e noto anche come “Ponte di Brooklyn” per una forma che richiama molto vagamente il celebre ponte americano. Ogni materiale, compreso il cemento armato, è soggetto ad un degrado naturale, che può tuttavia essere efficacemente contrastato da opere di manutenzione specifiche. E’ così proprio per il “ponte di Brooklyn” – costruito nel 1883 e sul quale, dopo ben 135 anni, ogni giorno transitano 100mila veicoli, oltre a 4mila pedoni e 2.600 biciclette. Anche il “Golden Gate bridge” è un esempio di ponte che dal 1937 svolge tranquillamente la sua fondamentale funzione di collegamento tra la città di San Francisco e la Bay area, grazie ad una costante manutenzione che prevede una continua opera di sostituzione, ammodernamento e verniciatura che inizia da una parte e, appena arrivata dall’alto lato, ricomincia da capo, di continuo e senza fine (http://goldengate.org/exhibits/italian/exhibitarea4_9.php), sostenendo anch’esso senza affanno il transito in un giorno normale di circa 100 000 veicoli. Negli Stati Uniti la costruzione di questi ponti venne finanziata con veri e propri prestiti da parte delle Città e, una volta esaurite le obbligazioni attraverso il pagamento dei pedaggi, quest’ultimo è stato dimezzato e mantenuto per finanziare il costo di manutenzione continuo sulla infrastruttura. Insomma, da quelle parti l’utente che transita su un ponte od una autostrada paga un pedaggio per ripagare la costruzione dell’opera, e poi per garantirne la piena efficenza e sicurezza, e non come da noi un pedaggio sempre crescente per non ben precisati motivi, sempre e comunque solo a favore delle concessionarie. Sulla durata dei materiali e la efficienza dei ponti, insomma, è solo un problema di costi, visto che a Roma abbiamo ancora in funzione ponti ad arcata della antica Roma (Ponte Milvio risale al 109 a.C. ed è tuttora in uso), e quindi sentir parlare di una vita massima di 50 anni per una costruzione in cemento armato è davvero inaccettabile.
Ultima considerazione va fatta sul drammatico parallelo tra la tragedia del ponte “Morandi”, ed il crollo della torre piloti nel porto di Genova avvenuto il 7 maggio 2013, a causa dell’impatto con la nave cargo “Jolly Nero”, che ci ha visto coinvolti nei vari processi a favore dei familiari di una vittima (Giuseppe Tusa), e che anche in quel caso (oltre ad una prima condanna penale a carico degli esecutori della manovra a bordo della nave e della società per la mancata manutenzione), è stato causato dalla mancata valutazione del rischio da parte di chi ha costruito e gestito la struttura, esattamente come è avvenuto per il ponte gemello “General Rafael Urdaneta”, costruito con lo stesso schema statico strallato applicato dal progettista Riccardo Morandi a Genova, e abbattuto in Venezuela nel 1964 sulla baia di Maracaibo dalla petroliera Exxon Maracaibo, che finì contro le pile 30 e 31 del ponte, ad oltre 600 metri di distanza dalle campate progettate per il passaggio del traffico navale, trascinando in mare ben tre campate consecutive del ponte e provocando decine di vittime. Questo tipo di evento, incredibilmente, non era stato preso in alcuna considerazione durante la progettazione, proprio come è successo nel caso della Torre piloti nel porto di Genova, come se delle strutture in cemento costruite a filo d’acqua e quotidianamente esposta al passaggio di meganavi, non potessero prima o poi essere abbattute a causa di un errore di manovra od una avaria.
La nostra massima solidarietà, in attesa dei primi risultati investigativi del Pubblico Ministero incaricato (dott. Walter Cotugno, lo stesso dei processi Jolly nero) va ai cittadini di Genova, colpiti da questo ennesimo crollo ad un simbolo della città, alle circa 40 vittime e loro familiari ed ai quasi 650 sfollati, che non sanno ancora quando potranno far ritorno nelle loro abitazioni.
- Avv. Massimiliano Gabrielli, avvocato in Roma